Questa nostra "città italiana" (ed europea) predestinata, in nome dei diversi secoli di dominio estetico, ad essere per definizione e per "diritto ereditario, la patria classica di tutte le forme moderne di arte applicata", deve trovare una soluzione qualitativa per l'esistenza quotidiana, senza vivere nel riflusso del passato urbano; bisogna in altre parole ritrovare "la virtù necessaria a disegnare il futuro". Nel mondo tecnologico attuale il vivere nel passato, "dall'antico affresco di pochi miti al mosaico di più breve durata" (perché anch'essi consumati dal consumismo) risulta ormai palese, anacronistico ed alienante. Non si può continuare a produrre pseudo-cultura nella convenzionalità, nel grigiore burocratico dei logorati dibattiti (sempre più politicizzati) che ancora oggi si promuovono sul destino del centro storico; ma si dovrebbero attuare studi e proposte operative nelle università (e legate alla didattica), finalizzate a produrre concretezze e risposte attendibili sui veri problemi della realtà esistenziale delle nostre città. Già in passato forse l'Università ha cercato di giocare questo ruolo, e una parte di architetti è rimasta all'interno di essa perché si sentivano partecipi di questo impegno, che poi per tanti motivi non è risultato tangibile e qualificato; in altre parole bisognerebbe che i Dipartimenti con l'attuale "mobilità operativa" raggiunta, venissero chiamati a misurarsi progettualmente sui vari problemi irrisolti della città, ma (sia chiaro) con l'impegno conseguente degli Enti pubblici a realizzarli, una volta ritenuti validi, tali progetti. Oggi infatti per questa situazione, concorsi e mostre di architettura non "prendono peso culturale" nell'opinione pubblica, perché ciò che si espone (non venendo realizzato) non è più credibile; mentre se all'esposizione seguisse la realizzazione, la popolarità (son convinto) tornerebbe d'incanto in questa "promessa di trasformazione del nostro vivere urbano". Insomma la fatica progettuale non deve più essere usata dai politici, solo come fiore all'occhiello "per attirare voti in odore" di elezioni. Va inoltre evidenziato come i risultati di molti concorsi anche recenti evidenziano nelle scelte premiate, il senso di una partecipazione quasi indifferente, una qualche preoccupante omogeneità di convergenza del generale gusto di rappresentanza (derivato forse dalla prudenza politica del vincere, cui io stesso sono stato soggetto) e tesa quasi a negare in maniera avvilente per l'architetto, un'evoluzione sulla risoluzione delle problematiche urbane, con il risultato di rendere vincente quell'omogenea cultura architettonica piena del funzionalismo comportamentale di massa, ormai imperante. Permane cioè nella falsa libertà comportamentale del progetto urbano (fine a se stesso) un'assenza di speranze e di tensioni ideali, capaci di opporsi alle contraddizioni tra sviluppo e staticità museale, tra tradizione e rinnovamento. Dai risultati insomma non sembra esistere un'intento a discutere sul progetto del suolo, degli spazi aperti, del paesaggio e delle conseguenze fisiche di questa pianificazione, purtroppo solo razionale sul significato strettamente funzionale del vivere quotidiano. Sia chiaro non si vuole in questo saggio tracciare le soluzioni alle problematiche portate avanti sinora dalle indagini complessive sulla città, sui comportamenti urbani e tanto meno sull'antropologia sociale e culturale degli "esseri metropolitani" ( in rapporto alla cultura degli operatori, alle loro ideologie e metodi analitici); si vuole solo con l'aiuto anche di alcuni studiosi, tracciare alcune annotazioni che possano fornire (me lo auguro) uno spiraglio, una traccia sulle difficoltà complessive che incontra una stimolazione per l'architetto e per il cittadino, alla coscienza urbana e un discorso di attribuzione di senso della città.